venerdì 27 novembre 2009

Sorvegliare e punire

Sotto il nome di crimini e di delitti, è vero, si giudicano sempre oggetti giuridici definiti dal codice, ma, nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni,anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell'ambiente o della eredità; si puniscono delle aggressioni, ma attraverso queste delle aggressività; degli stupri, ma nello stesso tempo delle perversioni; degli assassini che sono anche pulsioni e desideri. Si dirà: non sono questi ad essere giudicati; se li si invoca è per chiarire i fatti da giudicare e per determinare a qual punto era implicata nel crimine la volontà del soggetto. Risposta insufficiente. Poiché sono esse, queste ombre che stanno dietro gli elementi della causa giuridica, ad essere in realtà giudicate e punite. Giudicate indirettamente, attraverso le «circostanze attenuanti», che fanno entrare nel verdetto non solo elementi «circostanziali» dell'atto, ma qualcosa di diverso, non giuridicamente qualificabile: la conoscenza del criminale, l'apprezzamento che si ha di lui, ciò che si riesce a sapere sui rapporti fra lui, il suo passato e il suo delitto, ciò che ci si può aspettare da lui in avvenire. Giudicate, esse lo sono anche attraverso il gioco di tutte quelle nozioni che hanno circolato tra medicina e giurisprudenza dal secolo Diciannovesimo (i «mostri» dell'epoca di Georget le «anomalie psichiche» della circolare Chaumié, i «pervertiti» e i «disadattati» delle perizie contemporanee) e che, sotto il pretesto di spiegare un atto, sono in realtà un modo di qualificare un individuo. Punite, esse lo sono da un castigo che si attribuisce la funzione di rendere il delinquente «non solo desideroso, ma anche capace di vivere rispettando la legge e di sopperire ai propri bisogni»; esse lo sono attraverso l'economia interna di una pena che, se sanziona il crimine, può modificarsi (abbreviandosi o, se il caso lo richiede, prolungandosi) secondo che si trasformi il comportamento del condannato. Punite esse sono ancora dal gioco di quelle «misure di sicurezza» che si accompagnano alla pena (interdizione di soggiorno, libertà sorvegliata, tutela penale, trattamento medico obbligatorio), non destinate a sanzionare l'infrazione, ma a controllare l'individuo, a neutralizzare il suo stato di pericolosità, a modificarne le tendenze criminali, e a non cessare fino a che il cambiamento non sia stato ottenuto. L'anima del criminale non è invocata in tribunale al solo fine di spiegare il suo crimine e per introdurla come un elemento nell'assegnazione giuridica delle responsabilità; se la si invoca, con tanta enfasi, con tanta preoccupazione di comprendere e una così vasta applicazione «scientifica», è proprio per giudicarla, essa, insieme al crimine, e per prenderla in carico nella punizione. In tutto il rituale penale, dall'istruttoria fino alla sentenza e alle ultime sequenze della pena, è stato introdotto un insieme di nuovi oggetti che vengono a raddoppiare, ma anche a dissociare quelli giuridicamente già definiti e codificati. La perizia psichiatrica, ma in linea più generale l'antropologia criminale e il discorso, sempre ripetuto, della criminologia, esprimono qui una delle loro funzioni specifiche: inscrivendo solennemente le infrazioni nel campo degli oggetti suscettibili di conoscenza scientifica, dare ai meccanismi della punizione legale una presa giustificabile non più semplicemente dalle infrazioni, ma dagli individui; non più da ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono, possono essere, saranno. Il supplemento d'anima che la giustizia si è assicurato, in apparenza esplicativo e limitativo, è, in effetti, annessionista. Da quando, centocinquanta o duecento anni fa, l'Europa ha dato vita ai nuovi sistemi penali, i giudici, poco a poco, ma con un processo che risale a molto lontano, si sono messi a giudicare qualcosa di diverso dai reati: l'«anima» dei criminali.

M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976, pag. 20.

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