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domenica 15 aprile 2012

Gramsci Source


Digital Library

GramsciSource è una Digital Library attraverso la quale la International Gramsci Society (IGS) intende mettere a disposizione di tutte e tutti (studiose/i, lettrici/lettori, appassionate/i e anche semplici curiose/i) le opere di Antonio Gramsci in formato digitale, nonché informazioni sulla sua vita e sul suo pensiero, sul dibattito scientifico e filologico intorno alle sue opere e sulle loro diverse edizioni, sulla loro traduzione, sulla storia della critica e su altri aspetti relativi a Gramsci e alla sua presenza nel mondo di oggi.

L'inizio di un lungo lavoro

Questo lavoro – destinato a proseguire nel tempo e ad ampliarsi, fino a comprendere tutte le opere di Gramsci e la loro traduzione in molte lingue, la riproduzione dei manoscritti delle principali opere, la digitalizzazione di diversi testi storici e critici su Gramsci – inizia oggi a cura della IGS Italia (www.igsitalia.org) e del Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani, sotto la supervisione del Comitato scientifico internazionale appositamente nominato dalla IGS. Sono chiamati a concorrere al sito – sotto forma di lavoro, di fornitura di testi e materiali, di conoscenze, di contributi finanziari – tutti quegli enti, istituti, associazioni e singoli interessati allo sviluppo dello studio e della conoscenza di Gramsci.

Cosa offre GramsciSource

GramsciSource inizia con la messa a disposizione del pubblico dei Quaderni del carcere. I testi vengono presentati secondo un ordine autonomo, proprio di una edizione originale, pur mantenendo la numerazione delle note attribuita da Valentino Gerratana nella sue edizione critica del 1975. In futuro la DL GramsciSource si nutrirà dei contributi delle diverse edizioni e renderà possibile l’integrazione e il confronto fra esse.

Associazioni e Istituzioni

La IGS, la IGS Italia, il Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani sono associazioni e istituzioni senza fini di lucro. Essi hanno cura di assicurare la qualità e la scientificità del materiale reso disponibile nella Digital Library.

sabato 26 novembre 2011

Come provocare le catastrofi


Così arretrata sul piano giuridico e culturale, non è da meravigliarsi se l'Italia, come qualcuno ha giustamente detto, è il paese che sa meglio predisporre, organizzare e provocare quelle catastrofi che poi per consuetudine linguistica, continuano ad esser dette "catastrofi naturali". Le frane e le alluvioni che a intervalli regolari devastano l'ex giardino d'Europa hanno la loro causa prima nel disprezzo che dimostriamo per l'ambiente naturale, nelle insensate manomissioni cui abbiamo sottoposto il nostro territorio, nel rifiuto di conoscere il suolo in cui operiamo, nell'incapacità di esprimere una politica di piano che controlli trasformazioni e sviluppo, subordinandoli all'interesse pubblico.
Un primo panorama del disordine (primo della lunghissima serie di convegni, dibattiti, appelli che poi sarebbe seguita) ci venne presentato, ed era già tardi, nel 1964 in un congresso dell'Accademia dei Lincei, nel quale, tra l'altro, si diceva quanto segue. Con l'uso indiscriminato di insetticidi e anticrittogamici eliminiamo gli insetti necassari alle colture e alla fecondazione delle piante, e quindi sterminiamo gli uccelli che se ne cibano, compresi quelli utili all'agricoltura. Con la caccia incontrollata completiamo la strage della fauna, e desertifichiamo le campagne. Con gli scarichi industriali avveleniamo le acque, i pozzi, le colture, gli animali domestici. Con le bonifiche, attuate al di fuori di ogni seria valutazione economica, eliminiamo le paludi che sono la naturale valvola di sfogo dei corsi d'acqua.
Con gli impianti idroelettrici prosciughiamo le acque sottorranee e di superficie, inaridiamo il manto vegetale, minacciamo flora e fauna, trasformiamo fiumi e torrenti in una serie di greti asciutti, che poi gli scarichi degli abitati trasformano in pozze luride e infette. Col pretesto del turismo, in realtà per speculazione, lottizziamo e privatizziamo perfino i parchi nazionali, "santuari della natura", orgoglio dei paesi civili. Col disboscamento e il mancato rimboschimento favoriamo l'erosione, le frane, la furia delle acque selvagge, con le conseguenze a tutti note.
All'abbandono della campagna non abbiamo saputo far seguire un'opera sistematica di difesa del suolo, nel quadro di una moderna politica territoriale. Con la distruzione del verde nelle città e la costruzione di quartieri congestionati e incivili, favoriamo l'inquinamento dell'aria, priviamo la gente di ogni possibilità di ricreazione ed esercizio fisico, con gravi effetti sulla salute di giovani e adulti. E via dicendo.
Quel protocongresso ecologico terminò con voti e auspici che, come tutti quelli che poi sono seguiti, non hanno minimamente impressionato i destinatari, gli uomini di governo. Quanto siamo venuti facendo è così sistematico, incosciente e irresponsabile che sembra davvero ubbidire ad alcuni principi generali di efffetto sicuro, che sono appunto i più adatti a provocare il dissesto del suolo, allagamenti, alluvioni e altre calamità "naturali". Quali sono? Ce li illustra una rivista francese, in un'intervista col responsabile della politica ambientale di un paese immaginario, molto esperto nella nuova arte: "comment organiser les catastrophes".
Eccone qualcuno. Allevare nelle scuole "tecnici" specializzati quanto insensibili a ogni impegno politico-culturale, e convinti della superiorità della propria specializzazione su ogni altra. Fare in modo che le diverse amministrazioni (agricoltura e foreste, lavori pubblici, pubblica istruzione, industria e commercio, ecc.) agiscano come compartimenti stagni, rifiutando ogni coordinamento e visione globale dei problemi. Diffidare da quegli enti di cultura disinteressati (come sarebbero per esempio "Italia nostra", il Fondo mondiale per la natura, l'Istituto nazionale di urbanistica, ecc.) che si battono contro l'insensato sfruttamento delle risorse e per la difesa del patrimonio culturale e naturale. Infine e soprattutto, elaborare solo piani di settore, puntare sul vantaggio economico immediato, profittare al massimo, senza preoccuparsi delle conseguenze, dell'illimitata capacità degli uomini e delle forze economiche di cambiare a piacimento l'ambiente della nostra vita.
Impassibile e soddisfatto, l'intervistato ci illustra i risultati di così brillanti indirizzi. Dighe costruite a regola d'arte che crollano ai primi movimenti di terra non previsti dai tecnici del cemento armato, ma previsti dagli inascoltati geologi, splendide bonifiche sommerse in un attimo dalla furia delle acque, perchè gli economisti della barbabietola non hanno datto retta agli esperti di difesa idrogeologica del suolo; efficienti arginature di fiumi che saltano alla prima occasione, grazie al sistematico disboscamnto operato in montagna dai forestali, per i quali un albero comincia a valere qualcosa soltanto quando è segato; grandiosi insediamenti turistici in collina portati via dalle frane perchè gli impianti idroelettrici (o forse vogliamo "tornare al lume di candela?") hanno poco a poco inaridito il manto vegetale; complessi industriali in riva al mare i quali, inquinando irreversibilmente le acque e distruggendo ogni attrattiva paesistica, eliminando alla base ogni noiosa controversia sull'utilizzazione delle coste. E via di questo passo: Con il che, osserva l'autorevole personaggio, vengono una buona volta evitati i complicati e pericolosi problemi politici posti da una pianificazione coordinata: e inoltre, nei casi più clamorosi, si concorre a risolvere in modo drastico e spicciativo alcuni tra i maggiori malanni che affliggono in varia misura sia i paesi ricchi che quelli poveri: sovrapopolazione, sovraproduzione, sottoalimentazione, ecc.
Tutto ciò sembra calzare prfettamente con quanto avviene da noi. Ad esmpio: come fare per distruggere Venezia? Si prosciughino e interrino migliaia di ettari di barene e la laguna, fino a ieri bacino elastico e autoregolantesi, diventerà un catino dalle sponde rigide, con conseguente aumento della velocità delle acque di deflusso, aggravamento dell'erosione delle fondamentadegli edifici e allagamento sempre più grave dell'isola storica. Si scavino in continuazione pozzi d'acqua dolce, e accelereremo lo sprofondamento dell'illustre città. Si faccia il nuovo canale per le superpetroliere, si relaizzi la terza zona industriale, e la laguna potrà essere finalmente trasformata in mare di petrolio: avremo così posto tutte le premesse perchè Venezia (nel frattempo "restaurata" dalle società immobiliari, e quindi distrutta nei suoi valori umani e storici) salti finalmente per aria con tutti i suoi abitanti al primo scoppio di petroiera. Oltretutto, sarà un bello scherzo all'italiana alla faccia del mondo che ci ha prestato i miliardi per "salvare" questo inutile avanzo del passato: che già il padre dei futuristi avava con animo profetico definito "piaga purulenta d'Italia", "calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali", "semicupio sfondato per cortigiane cosmoplite", "cloaca massima del passatismo".


Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975

mercoledì 24 agosto 2011

Antonio Gramsci - Quaderni del Carcere (edizione digitale 2007 - a cura di Dario Ragazzini)

Il Cd Rom dei Quaderni del Carcere, a cura di Dario Ragazzini, prima versione digitale del capolavoro gramsciano, con le fonti, i rimandi, le occorrenze, la possibilità di raffrontare le diverse versioni delle note, di cui quei manoscritti sono fatti. Uno strumento formidabile per seguire passo passo non solo l’ordine cronologico dei Quaderni, magistralmente ricostruito a suo tempo da Valentino Gerratana. Ma anche quello ideale e tematico, sotteso in filigrana come progetto a venire del prigioniero pensante. L’altro dono è un’antologia: Le Opere, a cura di Antonio A. Santucci. Ripubblicata a diciasette anni dalla sua prima comparsa per gli Editori Riuniti per la collana le «Chiavi del tempo». Che mantiene intatto il suo carattere di rigoroso «thesaurum» filologico e diacronico, e che anzi resta come esempio di come andrebbe fatta un’antologia. Non scelta più o meno arbitaria quindi, legata ai gusti del curatore. Bensì in questo caso, autentico gesto di lettura sintetica, che dà conto in sviluppo delle idee dell’autore, così come si venivano formando nel vivo della sua battaglia (è la parola giusta per Gramsci). E qui mi sia consentita una divagazione, necessaria. Poiché chiarisce il senso di un volume, che è di per sè un’«opera». Antonio Santucci, scomparso prematuramente nel 2004, non solo era un amico de l’Unità, per la quale concepì volumi e iniziative gramsciane di formidabile spessore e successo. Fu un grande studioso di Gramsci, che accanto a Valentino Gerratana, fu protagonista di uno degli eventi più importanti per la cultura italiana: l’edizione critica, la prima, delle Opere di Gramsci per Einaudi. Anche grazie a lui è stato possibile ripristinare tutti i testi di cui parliamo, datarli, disporli, salvaguardarli. Inquadrarli. E ciò ben prima (1975) della prossima edizione nazionale degli scritti per l’Enciclopedia Italiana della Fondazione Istituto Gramsci, che verrà presentata a giorni al Capo dello Stato in Sardegna. Grazie al lavoro di Gerratana e Santucci, e senza dimenticare l’apporto infaticabile di Elsa Fubini, Caprioglio, Dino Ferreri, Spriano e tanti altri di quella stagione, il pianeta Gramsci è stato reso percorribile e anche «preparato» per ulteriori sistemazioni, che nondimeno non possono prescindere dalla mappatura del 1975. Dunque, chi aprirà l’antologia di Santucci, per formarsi una sua idea del Gramsci pensante, sa di essere in buone mani. Perché, e possiamo testimoniarlo personalmente, non v’era nessuno come Antonio in grado di agguantare il flusso fulmineo e stenografico dei pensieri gramsciani. E di districarne la selva, guidandovi dentro i profani.

Qual è il pregio di questa «antologia» strepitosa, con limpide istruzioini per l’uso, note contestualizzanti e indice dei nomi? Quello di una cronologia tematizzata. Che fa capire gli impulsi, e gli influssi temporali, che Gramsci accoglie e trasforma reattivamente. Illuminando al contempo il metodo di lavoro del prigioniero, allorchè si trovò ristretto in cella. Insomma, tra gli scritti giornalistici giovanili per il Grido del popolo e le splendide, attualissime pagine dei Quaderni su «Americanismo e fordismo» che chiudono idealmente il volume, c’è tutto Gramsci. Tutto, con le critiche teatrali, gli articoli sull’Ordine Nuovo e l’Avanti! - incluso il celebre «La rivoluzione (russa) contro il Capitale» del 1917 - lo scritto sulla Quistione meridionale, e la famosa polemica con Togliatti del 1926, riportata pari pari nel suo drammatico svolgimento epistolare, prima dell’arresto di Gramsci. Da un lato in quell’anno il realismo di Ercoli, che vede come necessità politica le misure contro l’opposizione di sinistra in Urss. Dall’altro la preveggenza di Gramsci, benché d’accordo con il Comintern, contro Trotsky: la disciplina forzosa «svuoterà» l’opera dei bolscevichi e renderà lo stato proletario una caserma autocratica. Nessuna elusione, nessuna celebrazione del «santino». Gramsci è lì cocciuto, nel 1926 e in altri momenti, a rivendicare la sua idea eretica della rivoluzione e della politica contro ogni tatticismo. E in tempi davvero tragici, di lealtà indiscusse, incipiente terrorismo staliniano e consolidantesi terrorismo fascista.
Qual è il problema di Gramsci, prima e dopo l’arresto, pur nella discontinuità della fase autocritica? Semplice, si fa per dire: un «pensiero-azione» della liberazione. Una filosofia pratica dell’emancipazione delle classi subalterne. Che passa attraverso due momenti.
La ricognizione delle sconfitte popolari, durante il Risorgimento e col fascismo. E la comprensione del quadro mondiale, con lo spostamento del baricentro del «progresso» dalla rottura russa del 1917 alla nuova economia globale americana. Con in mezzo le «modernizzazioni conservatrici» fasciste, del pari contraccolpi della guerra e del sommovimento ad Oriente che spezza il mercato mondiale. E qui comincia la lunga marcia del pensiero di Gramsci. Il tentativo di indicare la strada ai «ceti subalterni» dentro la modernità della «società civile», addestrando individui e gruppi al governo capillare di istituzioni, economia e società. «Prima» della presa del potere, e scongelando le «forme simboliche» di cui il potere si nutre. Sul territorio, nella scuola, nelle riviste, nei giornali, nelle unità economiche. Nel «folklore» e nel senso comune. Un lavorìo democratico, tra scontri e alleanze. Dove l’impegno «filosofico» più alto è proprio la politica come intellettualità collettiva, dialogata e conflittuale. E dove la posta in gioco è sempre quella. Ieri con Gramsci, oggi dopo di lui. Rovesciare il gioco dei dominanti. Senza lasciarsi decapitare dalla passività e dal trasformismo. In fondo la «filosofia della praxis», anima delle idee di Gramsci era questa. Un lungo viaggio della libertà.

da Gramsci, quel lungo viaggio della libertà, di Bruno Gravagnuolo, L’Unità 26.4.07


Già da tempo era in circolazione (su torrent) la copia anastatica in pdf dei "Quaderni", la quale però non permetteva la ricerca di frasi o parole all'interno del testo. Questa edizione, della quale sono venuto a conoscenza poco tempo fa e che pare sia passata nell'anonimato (almeno in internet), permette invece ricerche lessicali avanzate sia nel testo che nelle note (per queste ultime è possibile persino effettuare confronti paralleli).
Il file l'ho trovato (incredibilmente) in stato di incuria e di abbandono sul vecchio eMule. Ho scritto delle istruzioni per l'installazione, spero sufficientemente chiare, e le ho aggiunte nella cartella (.rar).
Buona lettura.

lunedì 4 gennaio 2010

The show must go on

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1. L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.

[...]

4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini.

Guy Debord, La società dello spettacolo

domenica 25 ottobre 2009

Einstürzende Neubauten

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Le fiamme fanno sempre parte della loro performance. "Come le producete?" ho chiesto a Blixa. "Bottiglie molotov" ha risposto indifferentemente. "Cosa?" Non sapevo se credergli o meno. "Non sai che cos'è una bottiglia di molotov? E' una bottiglia piena per due terzi di benzina e per un terzo d'aria. La chiudi con una benda. Cosa ci sia d'altro dentro la bottiglia...non lo so esattamente, ma non si accende semplicemente, esplode. Una piccola bomba".

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Un giovane crucco pelleossa urla in tedesco in mezzo a una collezione di portiere d'auto ammaccate, una betoniera e un figorifero recuperati dalla spazzatura per l'occasione e pronti per essere percossi, trapanati e limati. I fuochi che balzano da un fusto di benzina provocano sulla folla un effetto ipnotico primitivo.

I Neubauten, il quintetto tedesco considerato il "re del rock industriale", si è formato nel 1980 senza la minima intenzione di usare dei rottami come strumenti, ma i musicisti hanno cambiato idea quando per il pagamento dell'affitto dovettero impegnare la batteria. A quei tempi, per risparmiare sulle spese di trasporto, il gruppo di solito raccoglieva i nuovi "strumenti" nei bidoni della spazzatura fuori dai posti in cui suonava.

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"Lo facciamo per perdere il controllo, per andare oltre ai limiti", dice il cantante Blixa Bargeld, un ex becchino, barista e direttore di teatro che ha preso il suo nome da una marca di penne a sfera tedesche.
Alla fine sono riusciti ad attraversare l'oceano per riversare sulle scene americane il loro sudore, la rappresentazione della loro potente e ossessiva profezia della fine di tutte le forme musicali ufficiali. E lo fanno come professionisti fatti e finiti, ma senza boria. Dopo qualche anno nel mondo della musica non possono negare di aver sviluppato una certa efficienza nella loro presenza scenica. E riescono anche a farlo senza diventare schiavi della routine. Mentre conoscono il loro terreno - o meglio cemento - sono ancora alla ricerca, concentrandosi su se stessi, percuotendo fuori la loro arte d'acciaio. Il ruolo di culto in cui indubbiamente o inevitabilmente si sono ritrovati, viene gestito in maniera alquanto sobria.

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Piuttosto che esplodere in tutte le direzioni, un nuovo edificio che crolla, ricade su se stesso. Si finisce con meno di quello con cui si era iniziato. Il tutto consiste nel mettere in moto qualcosa senza semplificazioni. Se esplodi, minacci di sostituire un discorso (l'edificio illeso) con un altro (l'edificio distrutto). In questa maniera l'edificio che esplode traslittera il significato. Quindi sopravviene una possibile interpretazione politica: gli Einsturzende Neubauten come terroristi sonori, per esempio.
D'altro canto, l'implosione dei Neubauten - l'assalto minuziosamente orchestrato ai loro materiali fino che quasi niente rimanga non demolito oppure non seriamente compromesso - finisce quasi in un vicolo cieco dal punto di vista del discorso. "Ogni parola, ogni moralità, ogni ideale deve essere annullato", ha detto Blixa. "Tutte le idee di significato devono essere distrutte, annullate e non più scambiate".

mercoledì 19 agosto 2009

Ciao Nanda

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vignetta di Mauro Biani

martedì 11 agosto 2009

Influenze azzardate

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Nei libri c'è questa storia che Sorel sarebbe stato tra le letture preferite di Mussolini.
E ne viene fuori un'immagine del pensatore francese come preparatore del fascismo.
Allora mi è venuto in mente Berlusconi, che incluse Il Capitale di Marx tra le sue letture preferite.
Ma vi sembra che si possa imputare qualche responsabilità al vecchio Carletto per ciò che pensa, dice o fa il nostro presdelcons?
Mah...

domenica 26 luglio 2009

Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro

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L'educazione appartiene alla creazione dell'uomo, non alla produzione di merci. Avremmo dunque revocato l'assurdo dispotismo degli dei per tollerare il fatalismo di un'economia che corrompe e degrada la vita sul pianeta e nella nostra esistenza quotidiana?
La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata alla coscienza che la propaga. A giudicare dalla capacità dell'uomo a sovvertire ciò che lo uccide, può essere un'arma assoluta.
[...]
O entrerete come clienti nel mercato europeo del sapere lucrativo - cioè come schiavi di una burocrazia parassitaria, condannata a crollare sotto il peso crescente della sua inutilità -, o vi batterete per la vostra autonomia, getterete le basi per una scuola ed una società nuove, e recupererete, per investirlo nella qualità della vita, il denaro dilapidato ogni giorno nella corruzione ordinaria delle operazioni finanziarie.
[...]
Il denaro rubato alla vita è messo al servizio del denaro. Tale è la realtà nascosta dall'ombra assurda e minacciosa delle grandi istituzioni economiche: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico, Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, Commissione europea, Banca di Francia, eccetera. Il loro sostegno alle fondazioni e ai centri di ricerca universitaria richiede in cambio che sia propagato il vangelo del profitto, facilmente trasfigurato in verità universale dalla venialità della stampa, della radio, della televisione.
[...]
Tassare le grandi fortune (l'1% dei francesi possiede il 25% della ricchezza nazionale e il 10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati dagli uomini d'affari, denunciare lo scandalo delle spese di rappresentanza, colpire con pesanti multe i gestori della corruzione, bloccare gli averi della frode internazionale indicando a sufficienza, su una carta leggibile da tutti, gli accessi al tesoro che i cittadini alimentano e di cui sono sistematicamente spogliati. Non è meno vero che la pista si confonderà sotto l'effetto devastante della rassegnazione se il denaro non sarà recuperato per essere investito nel solo campo che sia veramente di interesse generale: la qualità della vita quotidiana e del suo ambiente.
[...]
L'insegnamento si trova nello stato di quegli alloggi non occupati che i proprietari preferiscono abbandonare al degrado perché lo spazio vuoto è redditizio mentre accogliervi degli uomini, delle donne, dei bambini, spogliati del loro diritto all'habitat, non lo è.
[...]
Tuttavia, requisire un edificio per trovare un riparo alla miseria - voglio dire installarvisi passivamente perché ci si sta al caldo - non sfugge in ultima istanza al piano di distruzione dei beni utili al quale conducono l'inflazione dei settori parassitari e la burocrazia proliferante da lei generata.
Ciò di cui vi impadronirete vi apparterrà veramente soltanto se lo renderete migliore; nel senso stesso in cui vivere significa vivere meglio. Occupate dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi possedere dal loro sfacelo programmato. Abbelliteli secondo il vostro gusto, ché la bellezza incita alla creazione e all'amore, mentre la bruttezza attira l'odio e l'annientamento. Trasformateli in ateliers creativi, in centri di incontro, in parchi dell'intelligenza attraente. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l'immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.
[...]
Noi siamo nati, diceva Shakespeare, per camminare sulla testa dei re. I re e i loro eserciti di boia sono ormai polvere. Imparate a camminare soli e sfiorerete coi piedi quelli che, nel loro mondo che muore, non hanno che l'ambizione di morire con lui.
Sta alle collettività di allievi e professori il compito di strappare la scuola alla glaciazione del profitto e renderla alla semplice generosità dell'umano. Perché bisognerà presto o tardi che la qualità della vita trovi accesso alla sovranità che un'economia ridotta a vendere e a valorizzare il suo fallimento le nega.
Dal momento in cui voi formulerete il progetto di un insegnamento fondato su un patto naturale con la vita, non dovrete più mendicare il denaro di quelli che vi sfruttano e vi disprezzano approfittando di voi. Quel denaro lo esigerete perché saprete come e perché impadronirvene.
Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle proprie capacità.

20 febbraio 1995

domenica 5 luglio 2009

Sull'aiuto indispensabile al rifiuto dell'assistenza permanente

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Il cammino dell'autonomia è simile a quello del bambino che impara a camminare.
Non ci si riesce senza lacrime e sforzi. Il rischio di cadere, di farsi male, di soffrire aggiunge ai primi passi l'ostacolo della paura. Tuttavia il soccorso di un affetto che incoraggia a rialzarsi, a ricominciare, ad ostinarsi, a coordinare i gesti dimostra che la padronanza dei movimenti si acquisisce meglio e più presto che nelle condizioni di un tempo in cui si trattava di progredire non solo sotto i fuochi incrociati della vanità beffarda, della minaccia diffusa, dell'angoscia di non essere più amati se non ci si applica, ma soprattutto attraverso un malessere, discretamente nutrito dall'ambiguità dei genitori desiderosi e nello stesso tempo timorosi che il loro bambino faccia i suoi primi passi verso un'autonomia che lo sottrarrebbe alla loro autorità tutelare e toglierebbe loro la sensazione di essere indispensabili.
[...]
La rottura è brutale all'ingresso nelle superiori. Si regredisce nella famiglia arcaica dove il fanciullo imparava a cavarsela da solo unicamente firmando un atto di una riconoscenza eterna a coloro che avevano assicurato il suo ammaestramento. La fiducia in sé, minata e compensata con l'insolenza, ricompone la ripugnante mescolanza di superbia e servilità che formava, nel passato, la norma del comportamento sociale.
Al desiderio sincero di fare dell'adolescente un essere umano a tutti gli effetti si sovrappone in un evitabile malessere l'esercizio di un potere al quale la struttura gerarchica costringe l'insegnante. Come potrebbe non vincere la tentazione di rendersi indispensabile e di coltivare nello studente una debolezza che ne rende più facile il dominio? Chi vende stampelle ha bisogno di zoppi.
Usciamo appena e con pena da una società in cui, non avendo mai potuto credere in se stessi, gli individui hanno accordato la loro credenza a tutti i poteri che li storpiavano facendoli marciare. Dio, chiese, Stato, patria, partito, leaders e piccoli padri dei popoli, tutto è stato ragionevole pretesto per non dover vivere da se stessi. Questi bambini che un tempo rialzavamo per farli cadere, è tempo di insegnar loro a imparare da soli.

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

sabato 6 giugno 2009

Imparare l'autonomia, non la dipendenza

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La scuola ha promulgato per secoli il sequestro del fanciullo da parte della famiglia autoritaria e patriarcale. Ora che si abbozza tra i genitori e la loro progenie una comprensione reciproca fatta di affetto e di autonomia progressiva, sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla comunità familiare.
[...]
La famiglia tradizionale preferiva fabbricare dei bambini in serie piuttosto che offrire la vita a due o tre piccoli esseri ai quali avrebbe dedicato senza riserve amore e attenzione. Quelli che non morivano in tenera età serbavano nel cuore il più delle volte una ferita segreta. La tirannia, il senso di colpa, il ricatto affettivo generarono in tal modo generazioni di spacconi che nascondevano sotto la durezza del carattere un infantilismo che imponeva loro di cercare un sostituto del padre e della madre in quelle famiglie a prestito che erano le chiese, i partiti, le sette, il gregarismo nazionale e i corpi di armata di ogni genere. La storia non ha conosciuto, per la sua disumanità, che dei bravacci in carenza di affetto. Ci voleva un bel po' di cinismo per evocare la "selezione naturale", tipica della specie animale, quando la produzione di carne da cannone e da fabbrica implicava la sua correzione statistica, e l'economia familiare di procreazione comportava un vizio di forma in cui la morte svolgeva la sua parte.
L'evoluzione dei costumi ci fa guardare oggi come ad una mostruosità questa proliferazione bestiale di vite irrimediabilmente condannate a venir riassorbite sotto i colpi di machete della guerra, del massacro, della carestia, della malattia. Eppure: stigmatizzare la sovrappopolazione dei paesi dove l'oscurantismo religioso si nutre della miseria che consciamente mantiene, e accettare che in Europa uno stesso spirito arcaico e sprezzante continui a trattare gli studenti come bestiame denota un'evidente incoerenza.
Perché il sovraffollamento delle classi non è solo causa di comportamenti barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione, perpetua per di più l'ignobile criterio della competitività, la lotta concorrenziale che elimina chiunque non si conformi alle esigenze del mercato.
[...]
Non ci sono bambini stupidi, ci sono solo educazioni imbecilli. Forzare lo scolaro a issarsi fino in cima al cesto contribuisce al progresso laborioso della rabbia e della furbizia animali, non certo allo sviluppo di un'intelligenza creatrice e umana.
Ricordate che nessuno è paragonabile né riducibile a nessun altro, a niente altro. Ciascuno possiede le sue proprie qualità, non gli resta che affinarle per il piacere di sentirsi in accordo con ciò che vive. Che si cessi dunque di escludere dal campo educativo il fanciullo che si interessa più ai sogni e ai criceti che alla storia dell'Impero romano. Per chi rifiuta di lasciarsi programmare dai calcolatori della vendita promozionale, tutte le strade portano verso di sé e verso la creazione.
Ieri ci si doveva identificare al padre, eroe o cretino dai così dolci sarcasmi. Ora che i padri si accorgono che la loro indipendenza progredisce con l'indipendenza del bambino, ora che sentono abbastanza l'amore di sé e degli altri per aiutare l'adolescente a disfarsi della loro immagine, chi sopporterà che la scuola proponga ancora come modelli di realizzazione il finanziere efficace e corrotto, l'uomo politico energico e rimbecillito, il mafioso che regna con il clientelismo e la corruzione, mentre l'uomo d'affari trae i suoi ultimi profitti dal saccheggio del pianeta?
Ricercare la propria identità in una religione, un'ideologia, una nazionalità, una razza, una cultura, una tradizione, un mito, un'immagine vuol dire condannarsi a non raggiungersi mai. Identificarsi a ciò che si possiede in sé di più vivo, questo solo emancipa.

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

domenica 17 maggio 2009

Genius at work

Dedico questa geniale invenzione, scovata nel web ed acquistabile qua, all'altrettanto geniale Umberto Eco, per le parole proncunciate l'altro giorno alla Fiera del Libro:

domenica 10 maggio 2009

Privilegiare la qualità

A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto scade nell'assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava ieri il plusvalore dei padroni, che non esitavano a distruggere le eccedenze di caffè, di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi sul mercato.
Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione, ha permesso di assorbire in una certa misura una crescente quantità di merci concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico.
[...]
Ma a forza di lavare sempre più bianco anche la menzogna finisce per logorarsi. Offesa dall'eccesso di disprezzo, la clientela ha finito per recalcitrare. Si è mostrata critica, ha rifiutato di ingoiare ciecamente quello che il cucchiaino dello slogan gli infilava ad ogni momento negli occhi, in bocca, nelle orecchie, in testa.
[...]
Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio dei prodotti snaturati da un'agricoltura che inonda il mercato di cereali forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati in allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere la cultura avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.
Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell'educazione le buone intenzioni che proclamano a ogni pie' sospinto, non dovrebbero mettere in opera tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare le due misure che determinano la condizione sine qua non di un apprendimento umano: aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi per classe, in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità e non nell'anonimato di una folla?
Ma, apparentemente, l'interesse ha per loro una connotazione più economica che semplicemente umana. Se i governi privilegiano l'allevamento intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più piccolo la quantità minima di teste, modellabili dal minimo personale possibile. La logica è perfetta e nessuna società protettrice degli animali insorgerà contro il consumo forzato di conoscenze sottoposte alla legge della domanda e dell'offerta, né contro gli usi da mercanti di cavalli che regnano sulla fiera del lavoro.
[...]
Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni allievo la molteplicità delle conoscenze, l'educatore avrà finalmente la libertà di diventare ciò che ha sempre sognato di essere: il rivelatore di una creatività di cui non vi è nessuno che non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia sotto il peso delle passate costrizioni.
Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

martedì 21 aprile 2009

Letture condivise

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Leggere sul pc, fondamentalmente, mi sta sul cazzo.
Ma di questi tempi, nei quali centoventi pagine costano come minimo dieci euri, occorre fare di necessità virtù.
Così, a costo di perdere qualche diottria, vi consiglio la lettura di qualche interessante testo in versione digitale che ho trovato girando nel web. I più fortunati, possono anche salvare e stampare i comodi file pidieffe.

M. Foucault - Sorvegliare e punire.pdf (1975)

Sorvegliare e punire, è piombato come una meteora sul campo di studio di penalisti e di criminologi. Proponendo un'analisi del sistema penale nella prospettiva della tattica politica e della tecnologia del potere, l'opera ha portato scompiglio tra le tradizionali concezioni sulla delinquenza e sulla funzione sociale della pena. Ha turbato i giudici repressivi, per lo meno quelli che s'interrogano sul senso del loro lavoro. Ha scosso un buon numero di criminologi che però non hanno affatto gradito che le loro teorie fossero definite chiacchiere.


A. Artaud - La Vera storia di Gesù Cristo.pdf (1992)

Antonin Artaud si era messo in testa di scrivere La Vera Storia di Gesù Cristo nell'agosto del 1947. I testi "preparatori", scritti, si presume, di getto e con rabbia iconoclasta, non divennero mai un testo definitivo e compiuto.
L'apparente delirio cui si abbandona Artaud non è solo frutto di una volontà rivoltosa contro tutte le tradizioni e le convinzioni che viveva nel suo presente, ma anche il prodotto di una lucida ambizione di rovesciare, in termini sbeffeggianti, alcuni elementi storico-semantici. E' noto che "cristo", dal greco Kristo's, significa "unto". Secondo la tradizione, gli eletti venivano definiti "unti". Il mito cristologico si radica, quindi, in una tradizione precedente e di essa si alimenta per sostenere la divinità di Gesù, la sua predestinazione. Artaud rovescia questa interpretazione pseudostoriografica e semantica. La beffa giunge al massimo quando Artaud parla della più "untuosa storia di culattone": il senso di "unto" viene stravolto, rovesciato. Ma non si pensi ad un qualche atteggiamento moralistico di Artaud verso la sodomia o la coprofilia. Non è certo nel suo stile nè nel suo pensiero. Il gusto sommo è quello di ribaltare la morale cristiana corrente, colpire la mistificazione mitologico-ecclesiastica più che non la divinità in quanto tale, cui Artaud ha sempre dato una dimensione differente, legata all'eccesso umano e ad una sorta di mistica pagana o panteistica.


Sbancor - Diario di guerra. Critica alla guerra umanitaria.pdf (1999)

"È circa mezzogiorno. Siedo distratto alla mia scrivania, in una banca. Sto cercando il modo migliore di accendermi un sigaro cubano". Inizia così uno strano diario della guerra in Kosovo, scritto da un ancor più enigmatico scrittore. Sbancor è un membro influente della comunità finanziaria italiana. Ma è anche un anarchico. Ha partecipato ai movimenti degli anni Settanta. Poi disgustato da una politica che obbligava a stare o con lo Stato o con le Br si è ritirato. È scomparso. Non ha lasciato tracce. Solo pochi amici fidati conoscono la sua identità. Ma quelli non parlano. Ha un difetto: non sopporta quello che non capisce. E la guerra umanitaria non lo convince.


L. Lessig - Cultura libera.pdf (2005)

Dove ci sta portando l’enfasi sui diritti di proprietà intellettuale? Le nuove tecnologie cambiano completamente le dimensioni del problema, rispetto ai tempi del “diritto d’autore”: non solo nel campo dell’informatica o dell’editoria tradizionale, ma in tutto il mondo dell’entertainment, dello spettacolo e in quelli, per il momento forse meno “visibili”, dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Fra chi vuole proteggere tutto (difendendo interessi acquisiti) e chi vorrebbe tutto “libero”, Lessig ha una posizione articolata e profonda, in equilibrio fra anarchia e controllo: difende l’idea di un creative commons, uno spazio pubblico di libertà, ed è a favore di licenze limitate, in cui non “tutti”, ma solo “alcuni diritti” sono riservati. Per combattere l’estensione illimitata dei diritti di proprietà, che porterebbe a una “feudalizzazione” della cultura.


K. Lasn - Culture Jam.pdf (2004)

Unendo scritti e opere visive, Lasn invita i cittadini del mondo occidentale, massificato e mercificato, a cambiare rotta. E indica anche il modo concreto per cambiare il mondo attuale: agire sul sistema dell'informazione, sulla gestione delle televisioni e sull'industria dell'alimentazione, della moda, delle auto, della musica e sull'organizzazione del potere. Mettendo in discussione il modello consumistico, gli idoli della pubblicità e dei marchi, questo volume mostra come ciascun individuo possa organizzare una resistenza allo strapotere del capitalismo selvaggio, contribuendo a dare vita a un mondo più giusto e più umano.


C. Cannella - Tutto deve crollare.pdf (2008)

Fin dalle prime righe Tutto deve crollare trascina il lettore in una storia dalle tinte profodamente cupe, in un’atmosfera noir spietata che non può lasciare indifferenti. Vi si narra la vicenda di un anarchico fuggito in Brasile negli anni Cinquanta e divenuto un personaggio cinico, violento, senza scrupoli.
«Tutto deve crollare è, in sintesi, una riflessione sulla forza corrosiva del tempo e sull’azione propulsiva e insieme disgregante del profitto a ogni costo. L’ideale può costituire una pur precaria forma di salvezza, ma resta minaccioso e oscuro il Moloch enorme, sordo e cieco della vita reale, che insorge insieme alla frattura originaria dell’esistere, e che riverbera sul destino di ognuno l’ombra di un incolmabile e decisivo difetto d’essere». Una tremenda metafora, dunque, per parlare dell’aberrazione della società dei consumi e delle logiche del potere.


K. Mitnick - L'arte dell'inganno.pdf (2005)

Questo libro descrive le strategie di "social engineering" impiegate dagli hacker, dagli agenti dello spionaggio industriale e dai criminali comuni per penetrare nelle reti. Si tratta di tecniche dell’"inganno", di espedienti per usare la buona fede, l’ingenuità o l’inesperienza delle persone che hanno accesso alle informazioni "sensibili".
L’"arte dell’inganno" praticata dall’hacker è paragonabile alle strategie che Sun Tzu descriveva nel suo leggendario trattato su L’arte della guerra. Anche in questo caso, la manipolazione del "fattore umano", la capacità di "ricostruire" le intenzioni, la mentalità e il modo di pensare del nemico, diventa lo strumento più micidiale ed efficace. Nel suo libro Mitnick è quasi didascalico, riporta le conversazioni telefoniche, le vicende e gli aneddoti spesso anche curiosi che permettono di capire concretamente il funzionamento delle tecniche di "social engineering". L’autore non si esime dal dare dei "buoni consigli" di difesa, fornendo così anche un prezioso vademecum per gli addetti alla protezione.

recensioni: 1,2,3,4,5,6,7

lunedì 20 aprile 2009

Bye bye Ballard

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E' morto il papà del cyberpunk.

La sua critica rivolta in modo originale e fantasioso alle macchine, alle città moderne, alla violenza irrazionale che nasce dalla noia, alla tv, lo rendono davvero unico e inimitabile.
Peccato non essere mai riuscita a finire di leggere un suo romanzo...

Ciao J.G.

domenica 19 aprile 2009

La fine del lavoro forzato inaugura l'era della creatività

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Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell'uomo si è trovato preso in trappola in un sistema che l'ha condannato a produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che l'arte e il sogno.
Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.
Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla vita non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l'automobile e la televisione, al prezzo dell'aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall'inflazione burocratica, dove niente è più garantito, né il salario, né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse energetiche, né le conquiste sociali.
In un'atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un'elemosina come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un'occupazione che lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).
[...]
Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale prospettiva e con quale coscienza? Se l'obbiettivo dell'operazione è, per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato e non alla vita, in cambio di un salario che ne pagherà il consumo crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di abbandonare al profitto di tutti.
Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un neocapitalismo che cerca nell'investimento ecologico un'arma contro l'immobilismo di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una presa di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere infine se stessi.
Perché, a dispetto dell'occultazione che intrattengono intorno ad essa le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita, una produzione senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente umani, la fine della dittatura che la redditività esercita sulla vita. Sta a voi - e alla nuova scuola che inventerete - impedire che la creatività, obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si intrappoli nell'alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.
Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena superata la cassa.

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

sabato 28 marzo 2009

Delle nuove leve per gestire il fallimento

Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra epoca, attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato in una crisi planetaria che è la crisi dell'economia nel suo funzionamento totalitario.
Ciò che ha dominato, dall'inizio del XIX secolo, l'insieme dei comportamenti individuali e collettivi, è stata la necessità di produrre. Organizzare la produzione tramite il lavoro intellettuale e il lavoro manuale esigeva un metodo direttivo, una mentalità autoritaria, se non dispotica. Erano i tempi della conquista militare dei mercati. I paesi industrializzati depredavano senza scrupoli le risorse delle nuove colonie.
Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni, subì, a dispetto della sua spontaneità libertaria, l'influenza autocratica che la preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi. Sindacati e partiti operai si danno una struttura burocratica che avrebbe finito per ostacolare le masse laboriose con il pretesto di emanciparle.
Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché riesce a strappare alla classe sfruttatrice porzioni dei benefici, tradotte in aumenti salariali, miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata di otto ore, le ferie pagate), vantaggi sociali (sussidio di disoccupazione, mutua).
Gli anni '20 e '30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione della produzione. Il passaggio dal capitalismo privato al capitalismo di Stato avviene brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la dittatura di un partito unico - fascista, nazista, stalinista - impone la statalizzazione dei mezzi di produzione.
Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia formale, la concentrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una vocazione padronale si compie in modo più lento, sornione, meno violento.
È negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo orientamento economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà sensibilmente le mentalità e i costumi: l'incitamento al consumo infatti diventa più forte della necessità di produrre.
A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare l'Europa devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi, identificata ad una società del benessere.
L'obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un'impresa addobbata con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti un nuovo imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa, ma consumare.
[...]
Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio del settore terziario, che vende la propria complessità burocratica sotto forma di aiuti e protezioni. L'agricoltura di qualità è stata schiacciata dalle lobbies dell'agroalimentare che producono in eccesso surrogati di cereali, carni e verdure. L'arte di abitare è stata sepolta sotto il grigiore, la noia e la criminalità del cemento che assicura le entrate dei gruppi di affari.
Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva per gli studenti d'élite ai quali è promessa una bella carriera nell'inutilità lucrativa e nelle mafie finanziarie. Il circolo è chiuso: studiare per trovare un impiego, per quanto aberrante sia, si è riallacciato con l'ingiunzione di consumare nel solo interesse di una macchina economica che si blocca da tutte le parti in Occidente - anche se gli specialisti ci annunciano ogni anno la sua trionfale ripresa.
Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa in cui il denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché investirsi nella fabbricazione di prodotti di qualità, utili al miglioramento della vita e del suo ambiente. Il denaro è ciò che manca di meno, contrariamente a quello che vi rispondono i vostri deputati, ma l'insegnamento non è un settore redditizio.

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

giovedì 26 marzo 2009

Tiqqun - Appello (e non solo...)

Durante l'interessante incontro di ieri sera, l'autore del libro Vivere senza padroni, Stefano Boni, ha citato e consigliato un pamphlet (Appello) del collettivo parigino Tiqqun, nato nel 1999 da e con l'omonima rivista filosofica e il cui scopo generale è quello di "ricreare le condizioni per una comunità altra".

Influenzati, tra gli altri, dal pensiero situazionista e dall'opera di Agamben, quelli di Tiqqun si contraddistinguono per una critica libertaria e disincantata sia delle attuali condizioni di vita dell'uomo all'interno delle società occidentali(zzate) che delle vecchie/nuove forme di potere ora dominanti. In tal senso recuperano, nei due numeri della rivista da loro pubblicata, da un lato l'analisi di Debord, la sua nozione di spettacolo e la vasta critica situazionista della vita quotidiana, dall'altro il concetto foucaultiano di biopotere, incrociandoli in proposte sicuramente estreme e non convenzionali ma cariche di una lucidità del tutto peculiare ed efficace in un periodo di aridità intellettuale come quello che stiamo vivendo.

Proprio l'aridità desertica sembra essere il punto di partenza dell'Appello in questione, che inizia con queste parole:

Non manca nulla al trionfo della civiltà.
Non il terrore politico e neppure la miseria affettiva.
Non la sterilità universale.
Il deserto non può più estendersi: è ovunque.
Ma può ancora diventare più profondo.
Di fronte all'evidenza della catastrofe c'è chi si indigna e chi
ne prende atto, chi denuncia e chi si organizza.
Noi siamo dalla parte di chi si organizza.


Tiqqun - Appello Tiqqun - Appello

Purtroppo, uno dei fondatori del collettivo, tale Julien Coupat, è stato recentemente coinvolto in una brutta storia di persecuzione poliziesca, della quale avevamo parlato qui e qui, che ha visto la mobilitazione di diversi intellettuali, francesi e non.

Fedeli alla tradizione situazionista, i loro materiali sono totalmente svincolati dalle catene mercantili del copyright.
Siete dunque caldamente invitati a scaricarli, riprodurli e diffonderli.

Qua c'è tutta la bibliografia che sono riuscito a trovare on-line:

* Tiqqun n.1 - Exercices de Metaphysique Critique (primo numero della rivista, 1999 - in francese).

* Tiqqun n.2 - Zone d'opacité offensive (secondo numero della rivista, 2001 - in francese).


* Tiqqun - Introduzione alla guerra civile (traduzione di Introduction à la guerre civile, tratto dal secondo numero della rivista). Parte prima La guerra civile, le forme di vita.

*
Tiqqun - Introduzione alla guerra civile (traduzione di Introduction à la guerre civile, tratto dal secondo numero della rivista). Parte seconda L'impero, il cittadino.

*
Tiqqun - Ecografia di una potenzialità (traduzione di Echographie d'une puissance, tratto dal secondo numero della rivista).

*
Tiqqun - La comunità terribile. Della miseria dell'ambiente sovversivo (traduzione di Thèses sur la communautè terrible, Comment faire? e Ceci n'est pas un programme, tratti dal secondo numero della rivista).

Buona lettura!

martedì 24 marzo 2009

Vivere senza padroni @ XM24 (Bologna)

presentazione del libro con l’autore Stefano Boni

È nel vissuto che si costruisce l’antagonismo, sostiene l’autore, non nei grandi eventi mediatici del movimento. Perciò questa narrazione “antropologica” si sofferma sulle prassi di vita di un frammento di umanità ribelle, al di là degli stereotipi mediatici. Il movimento è la sua cultura, una cultura che è fatta di valori specifici, di un immaginario comune e comunitario, di emozioni e idiosincrasie condivise, ma anche del loro tradursi e manifestarsi in uno stile di vita. In queste modalità peculiari e distintive di fare le cose e di pensare il mondo si genera l’identità comune, il “noi” descritto in questo libro. Un “noi” non delimitabile ma identificabile e identificante. È un ritratto dall’interno di un circuito conviviale in cui si colloca anche l’autore, antropologo e libertario, osservatore e partecipe insieme, in uno sforzo di oggettività empatica.

Questo è un libro COPYLEFT. Si può scaricare in formato elettronico, copiare e diffondere liberamente senza fini di lucro.


a seguire concerto frigotecniche + donna bavosa

X MARY
punk extravaganza

RELLA THE WOODCUTTER
country folk punk

domenica 22 marzo 2009

Un esempio di resistenza

Nelle prigioni di questo pianeta, in tutte le varietà che presenta questa ignominia, il potere esercita ogni giorno la stessa pratica: trasformare uomini e donne in piccole unità di sopravvivenza, impotenti e tristi. In fondo alle galere di certe dittature, per esempio, i prigionieri sono lasciati senz'acqua e cibo per vari giorni. Quando la situazione è giunta al limite, si dà loro una razione tanto scarsa da costringerli a battersi con il compagno di cella per mangiare. In questo modo, si formano spesso mafie interne e i più forti decidono la sorte dei più deboli. I metodi possono variare, essere più o meno brutali, ma il funzionamento rimane identico.
I classici del pensiero politico borghese considerano questa situazione uno stato "naturale" dell'umanità: l'uomo è lupo per l'uomo, in un ambiente naturale limitato prevale la guerra di tutti contro tutti, anche nel caso di quella guerra "sublimata" che è il mercato. Con simili ragionamenti si è giunti fino a spiegare il progresso. Per questo la borghesia non è mai stata in grado di liberarsi dal darwinismo sociale e, in ultima istanza, da quel fantasma che la segue come la sua ombra e che essa non smette mai di esorcizzare con discorsi sui diritti dell'uomo: il nazismo.
L'analogia con il carcere, però, può indurci in errore e farci credere che eliminando gli amministratori e le guardie del mondo la faremo finita con l'oppressione una volta per sempre. Il guaio è che non c'è un'uscita di sicurezza dal pianeta e nessun Settimo cavalleggeri intergalattico verrà a salvarci alla fine del film. Il nostro carcere, il nostro campo di concentramento è la banalità quotidiana.
I detenuti in certe prigioni considerano spesso la propria situazione come una realtà qui e ora e non come una fase passeggera che finirà il giorno in cui potranno finalmente uscire "in libertà". Qui e ora bisogna resistere, si dicono, al sistema di oppressione degli amministratori e delle guardie. In questo caso la resistenza significa la costruzione di una rete di condivisione e di solidarietà dentro la prigione, una specie di comunismo applicato al qui e ora, capace di far fronte alla serialità che i carcerieri vogliono imporre.
In certe prigioni latinoamericane, per esempio, i prigionieri comuni riproducevano all'interno la divisione tra delinquenti e mafie che si contendevano magri beni e privilegi. Quando arrivavano prigionieri politici spesso la situazione cambiava radicalmente. Si spartivano le poche cose, si organizzavano attività creative, rappresentazioni teatrali, gruppi di riflessione, si eleggevano delegati e si riusciva perfino a limitare la brutalità delle guardie. Le dittature capirono in fretta la logica di questo fenomeno e decisero di dividere detenuti comuni e detenuti politici.
Che cosa avveniva in quelle situazioni? I prigionieri politici non promettevano ai detenuti comuni piani infallibili di evasione e nessun altro sistema per liberarsi. [...] Si limitavano a invitare tutti a fare qualcosa per cambiare la vita, qui e ora, e a resistere così al potere carcerario. [...] la speranza di sfuggire a questo mondo forse non è che un desiderio indissolubilmente legato alla condizione umana. Le religioni se ne sono alimentate per secoli e, chissà, lo stesso hanno fatto gli ideali rivoluzionari. Ma presentare questo mondo, questa situazione, come un momento provvisorio, in attesa del giudizio finale o dell'ondata rivoluzionaria, è stata in ogni epoca la strategia degli oppressori di ogni e qualsiasi tendenza. La "speranza", in questo senso, può essere profondamente reazionaria.


M. Benasayag
- D. Scavino, Per una nuova radicalità, Il Saggiatore

sabato 7 marzo 2009

Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l'anticamera di una società parassitaria e mercantile

Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum sull'insegnamento superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi come imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento auspicava che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati non ad apprendere ma a consumare.
I corsi diventavano così dei prodotti, i termini "studenti", "studi", lasciavano il posto ad espressioni più appropriate al nuovo orientamento: "capitale umano", "mercato del lavoro".
Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla dimensione europea dell'educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola materna, bisogna formare delle "risorse umane per i bisogni esclusivi dell'industria" e favorire "una maggiore adattabilità di comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera".
Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso la forza esaurita del passato!
Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella scuola di ieri - il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti avranno finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare la bilancia dei mercati producendo dell'inutile e consumando della merda.

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996