domenica 22 marzo 2009

Un esempio di resistenza

Nelle prigioni di questo pianeta, in tutte le varietà che presenta questa ignominia, il potere esercita ogni giorno la stessa pratica: trasformare uomini e donne in piccole unità di sopravvivenza, impotenti e tristi. In fondo alle galere di certe dittature, per esempio, i prigionieri sono lasciati senz'acqua e cibo per vari giorni. Quando la situazione è giunta al limite, si dà loro una razione tanto scarsa da costringerli a battersi con il compagno di cella per mangiare. In questo modo, si formano spesso mafie interne e i più forti decidono la sorte dei più deboli. I metodi possono variare, essere più o meno brutali, ma il funzionamento rimane identico.
I classici del pensiero politico borghese considerano questa situazione uno stato "naturale" dell'umanità: l'uomo è lupo per l'uomo, in un ambiente naturale limitato prevale la guerra di tutti contro tutti, anche nel caso di quella guerra "sublimata" che è il mercato. Con simili ragionamenti si è giunti fino a spiegare il progresso. Per questo la borghesia non è mai stata in grado di liberarsi dal darwinismo sociale e, in ultima istanza, da quel fantasma che la segue come la sua ombra e che essa non smette mai di esorcizzare con discorsi sui diritti dell'uomo: il nazismo.
L'analogia con il carcere, però, può indurci in errore e farci credere che eliminando gli amministratori e le guardie del mondo la faremo finita con l'oppressione una volta per sempre. Il guaio è che non c'è un'uscita di sicurezza dal pianeta e nessun Settimo cavalleggeri intergalattico verrà a salvarci alla fine del film. Il nostro carcere, il nostro campo di concentramento è la banalità quotidiana.
I detenuti in certe prigioni considerano spesso la propria situazione come una realtà qui e ora e non come una fase passeggera che finirà il giorno in cui potranno finalmente uscire "in libertà". Qui e ora bisogna resistere, si dicono, al sistema di oppressione degli amministratori e delle guardie. In questo caso la resistenza significa la costruzione di una rete di condivisione e di solidarietà dentro la prigione, una specie di comunismo applicato al qui e ora, capace di far fronte alla serialità che i carcerieri vogliono imporre.
In certe prigioni latinoamericane, per esempio, i prigionieri comuni riproducevano all'interno la divisione tra delinquenti e mafie che si contendevano magri beni e privilegi. Quando arrivavano prigionieri politici spesso la situazione cambiava radicalmente. Si spartivano le poche cose, si organizzavano attività creative, rappresentazioni teatrali, gruppi di riflessione, si eleggevano delegati e si riusciva perfino a limitare la brutalità delle guardie. Le dittature capirono in fretta la logica di questo fenomeno e decisero di dividere detenuti comuni e detenuti politici.
Che cosa avveniva in quelle situazioni? I prigionieri politici non promettevano ai detenuti comuni piani infallibili di evasione e nessun altro sistema per liberarsi. [...] Si limitavano a invitare tutti a fare qualcosa per cambiare la vita, qui e ora, e a resistere così al potere carcerario. [...] la speranza di sfuggire a questo mondo forse non è che un desiderio indissolubilmente legato alla condizione umana. Le religioni se ne sono alimentate per secoli e, chissà, lo stesso hanno fatto gli ideali rivoluzionari. Ma presentare questo mondo, questa situazione, come un momento provvisorio, in attesa del giudizio finale o dell'ondata rivoluzionaria, è stata in ogni epoca la strategia degli oppressori di ogni e qualsiasi tendenza. La "speranza", in questo senso, può essere profondamente reazionaria.


M. Benasayag
- D. Scavino, Per una nuova radicalità, Il Saggiatore

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