Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell'uomo si è trovato preso in trappola in un sistema che l'ha condannato a produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che l'arte e il sogno.
Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.
Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla vita non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l'automobile e la televisione, al prezzo dell'aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall'inflazione burocratica, dove niente è più garantito, né il salario, né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse energetiche, né le conquiste sociali.
In un'atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un'elemosina come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un'occupazione che lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).
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Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale prospettiva e con quale coscienza? Se l'obbiettivo dell'operazione è, per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato e non alla vita, in cambio di un salario che ne pagherà il consumo crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di abbandonare al profitto di tutti.
Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un neocapitalismo che cerca nell'investimento ecologico un'arma contro l'immobilismo di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una presa di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere infine se stessi.
Perché, a dispetto dell'occultazione che intrattengono intorno ad essa le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita, una produzione senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente umani, la fine della dittatura che la redditività esercita sulla vita. Sta a voi - e alla nuova scuola che inventerete - impedire che la creatività, obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si intrappoli nell'alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.
Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena superata la cassa.
Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996
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