Autobomba contro i giudici
La vendetta della spia
Due bombole di gas, una aperta per saturare l’abitacolo. Due taniche di benzina, 16 litri in tutto, più quella che ha imbevuto i sedili posteriori di una Punto azzurra, rubata venerdì mattina ad Alassio. No, davvero non era solo un gesto dimostrativo l’autobomba che l’altra notte avrebbe dovuto far saltare in aria il palazzo di giustizia. L’innesco si è spento quando già il fuoco aveva lambito la lamiera. Ma l’esplosione sarebbe stata devastante. A rendere l’attentato, fallito per un soffio, ancora più inquietante è la pista seguita dagli investigatori. La vendetta di Roman Antonov, ex spia del Kgb, condannato all’ergastolo per aver ucciso un giovane, averlo bruciato e aver poi simulato la propria morte per incassare l’assicurazione.
La prima pista
Sicuramente quella privilegiata dal sostituto Filippo Maffeo e dalla squadra mobile di Imperia, diretta da Raffaele Mascia. Perché ci sono almeno tre indizi che conducono in quella direzione. E il fatto che l’auto non sia deflagrata, distruggendo ogni traccia, dà ora agli investigatori un vantaggio che non intendono perdere.
Ma prima delle ipotesi, occorre ricostruire cos’è accaduto l’altra notte. E per farlo, così come ha fatto la polizia, bisogna risalire ancora più indietro, alla mattina di venerdì 31 ottobre ad Alassio. Sono le 11, 15. Un commerciante parcheggia l’auto per portare un pacco nel suo magazzino. Operazione di pochi istanti: per questo lascia le chiavi nel cruscotto. Torna indietro, ma la Punto azzurro-metallizzata è già sparita.
E arriviamo a sabato sera, il primo novembre. Alle 20,30, come sempre, il custode chiude il cancello del palazzo di giustizia, poi si chiude nel suo alloggio. Alle otto e mezza del mattino si risveglia, effettua un giro di controllo e scopre quell’auto, che puzza di benzina e che non era parcheggiata lì la sera precedente. Dà subito l’allarme.
Arrivano la squadra mobile e la Digos,insieme agli artificieri e alla scientifica. L’anta destra del cancello è ancora aperta, la catena è stata tranciata. Il meccanismo di apertura automatica è stato azionato, quasi sicuramente, da un telecomando clonato o da un apparecchio abilitato a funzionare su diverse frequenze. La sbarra è stata alzata senza troppe difficoltà.
Ma quando è accaduto tutto? Un testimone restringe l’arco temporale. La sera prima, verso le 22,30, passeggiava davanti al palazzo di giustizia. Spiega ai poliziotti: «Quella macchina ha attirato la mia attenzione, mi sono detto: ma come si fa a parcheggiare così malamente dentro un tribunale? Quando stamattina ho scoperto cos’è accaduto, sono corso a dirvelo».
Quindi il blitz degli attentatori, corredati di attrezzature tecnologiche, è stato messo a segno in quelle due ore: tra le 20,30 e le 22,30. L’innesco era liquido: una lunga scia di benzina sull’asfalto. È bruciata tutta, fino ad arrivare alla lamiera della macchina. Poi qualcosa di imprevisto e imprevedibile l’ha spenta. Prima che ll’auto saltasse in aria, ormai satura di gas, con il suo potenziale distruttivo.
Spiegano i tecnici che i danni all’edificio, pur in cemento armato, sarebbero stati enormi. E che anche i palazzi vicini sarebbero rimasti lesionati dall’esplosione.
E così, scampato il pericolo per un fortuito e fortunato evento del destino, si dà la caccia ai dinamitardi. Gli inquirenti si sbilanciano. Non è un’azione legata all’eversione e all’estremismo politico: da quel punto di vista, il tribunale di Imperia sarebbe un obiettivo senza senso. E nemmeno è un gesto riconducibile alla criminalità organizzata («le cosche non avrebbero fallito», spiega un investigatore). E allora rimane la pista della vendetta, una vendetta personale. E il nome che gli inquirenti si lasciano scappare senza neppure fare troppi misteri è proprio quello di Antonov.
Primo indizio. Alla fine del processo che lo condanna alla massima pena Antonov affronta il pm Maffeo. Gli sibila: «Vedi sulla mia mano la linea della vita? È lunga, è molto lunga. Ci rivedremo ancora». Una minaccia, plateale, di ritorsione. Che potrebbe essersi concretizzata a poche settimane dal processo in Assise d’appello, che si svolgerà il 27 novembre a Genova.
Secondo: la tecnica della bombola di gas è la stessa che fu utilizzata per dare alle fiamme la macchina di Antonov, bruciando tra le fiamme anche la disgraziata vittima sacrificale di un piano diabolico, che ricostruiamo nella parte inferiore di questa pagina. Terzo: la strana predisposizione di Antonov per le simbologie legate alle date. Ieri era il due novembre, giorno dei defunti. Per scegliere il giorno dell’omicidio nel fuoco della sua vittima Antonov aveva appuntato sul suo calendario il 14 maggio, giorno in cui si celebra Giovanna d’Arco, morta sul rogo.
Fonte Il Secolo XIX
La vendetta della spia
Due bombole di gas, una aperta per saturare l’abitacolo. Due taniche di benzina, 16 litri in tutto, più quella che ha imbevuto i sedili posteriori di una Punto azzurra, rubata venerdì mattina ad Alassio. No, davvero non era solo un gesto dimostrativo l’autobomba che l’altra notte avrebbe dovuto far saltare in aria il palazzo di giustizia. L’innesco si è spento quando già il fuoco aveva lambito la lamiera. Ma l’esplosione sarebbe stata devastante. A rendere l’attentato, fallito per un soffio, ancora più inquietante è la pista seguita dagli investigatori. La vendetta di Roman Antonov, ex spia del Kgb, condannato all’ergastolo per aver ucciso un giovane, averlo bruciato e aver poi simulato la propria morte per incassare l’assicurazione.
La prima pista
Sicuramente quella privilegiata dal sostituto Filippo Maffeo e dalla squadra mobile di Imperia, diretta da Raffaele Mascia. Perché ci sono almeno tre indizi che conducono in quella direzione. E il fatto che l’auto non sia deflagrata, distruggendo ogni traccia, dà ora agli investigatori un vantaggio che non intendono perdere.
Ma prima delle ipotesi, occorre ricostruire cos’è accaduto l’altra notte. E per farlo, così come ha fatto la polizia, bisogna risalire ancora più indietro, alla mattina di venerdì 31 ottobre ad Alassio. Sono le 11, 15. Un commerciante parcheggia l’auto per portare un pacco nel suo magazzino. Operazione di pochi istanti: per questo lascia le chiavi nel cruscotto. Torna indietro, ma la Punto azzurro-metallizzata è già sparita.
E arriviamo a sabato sera, il primo novembre. Alle 20,30, come sempre, il custode chiude il cancello del palazzo di giustizia, poi si chiude nel suo alloggio. Alle otto e mezza del mattino si risveglia, effettua un giro di controllo e scopre quell’auto, che puzza di benzina e che non era parcheggiata lì la sera precedente. Dà subito l’allarme.
Arrivano la squadra mobile e la Digos,insieme agli artificieri e alla scientifica. L’anta destra del cancello è ancora aperta, la catena è stata tranciata. Il meccanismo di apertura automatica è stato azionato, quasi sicuramente, da un telecomando clonato o da un apparecchio abilitato a funzionare su diverse frequenze. La sbarra è stata alzata senza troppe difficoltà.
Ma quando è accaduto tutto? Un testimone restringe l’arco temporale. La sera prima, verso le 22,30, passeggiava davanti al palazzo di giustizia. Spiega ai poliziotti: «Quella macchina ha attirato la mia attenzione, mi sono detto: ma come si fa a parcheggiare così malamente dentro un tribunale? Quando stamattina ho scoperto cos’è accaduto, sono corso a dirvelo».
Quindi il blitz degli attentatori, corredati di attrezzature tecnologiche, è stato messo a segno in quelle due ore: tra le 20,30 e le 22,30. L’innesco era liquido: una lunga scia di benzina sull’asfalto. È bruciata tutta, fino ad arrivare alla lamiera della macchina. Poi qualcosa di imprevisto e imprevedibile l’ha spenta. Prima che ll’auto saltasse in aria, ormai satura di gas, con il suo potenziale distruttivo.
Spiegano i tecnici che i danni all’edificio, pur in cemento armato, sarebbero stati enormi. E che anche i palazzi vicini sarebbero rimasti lesionati dall’esplosione.
E così, scampato il pericolo per un fortuito e fortunato evento del destino, si dà la caccia ai dinamitardi. Gli inquirenti si sbilanciano. Non è un’azione legata all’eversione e all’estremismo politico: da quel punto di vista, il tribunale di Imperia sarebbe un obiettivo senza senso. E nemmeno è un gesto riconducibile alla criminalità organizzata («le cosche non avrebbero fallito», spiega un investigatore). E allora rimane la pista della vendetta, una vendetta personale. E il nome che gli inquirenti si lasciano scappare senza neppure fare troppi misteri è proprio quello di Antonov.
Primo indizio. Alla fine del processo che lo condanna alla massima pena Antonov affronta il pm Maffeo. Gli sibila: «Vedi sulla mia mano la linea della vita? È lunga, è molto lunga. Ci rivedremo ancora». Una minaccia, plateale, di ritorsione. Che potrebbe essersi concretizzata a poche settimane dal processo in Assise d’appello, che si svolgerà il 27 novembre a Genova.
Secondo: la tecnica della bombola di gas è la stessa che fu utilizzata per dare alle fiamme la macchina di Antonov, bruciando tra le fiamme anche la disgraziata vittima sacrificale di un piano diabolico, che ricostruiamo nella parte inferiore di questa pagina. Terzo: la strana predisposizione di Antonov per le simbologie legate alle date. Ieri era il due novembre, giorno dei defunti. Per scegliere il giorno dell’omicidio nel fuoco della sua vittima Antonov aveva appuntato sul suo calendario il 14 maggio, giorno in cui si celebra Giovanna d’Arco, morta sul rogo.
Fonte Il Secolo XIX
1 commento:
Quarto:Roman Antonov è notoriamente il Re Mida della cilecca!
Tutto ciò che fa è un flop!
Solo un coglione come lui poteva non sapere che la comune benzina è piena di addittivi e quindi non è poi così tanto infiammabile ossia una volta incendiata tende quasi subito a spegnersi e quindi non va bene se la devi usare in quel modo(la portiera della macchina era semi chiusa per poter trattenere all'interno il gas sprigionato dalle bombole e quindi la fiammella doveva resistere almeno fino a bruciare le guarnizioni della portiera per poi venire a contatto col propano(?) e generare la deflagrazione).
scoundrel
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