venerdì 12 settembre 2008

2. La società dell'apartheid neoliberista

* Una società basata sull'astrazione irrazionale "lavoro" sviluppa necessariamente una tendenza all'apartheid sociale, quando la vendita riuscita della merce "forza-lavoro" da regola diventa l'eccezione. Tutte le fazioni del "campo del lavoro", che comprende tutti i partiti, hanno da tempo accettato silenziosamente questa logica e le danno man forte. Esse non si chiedono più se sempre più ampi settori della popolazione debbano essere spinti ai margini ed esclusi da ogni partecipazione alla vita sociale, ma soltanto come debba essere imposta questa selezione, con le buone o, soprattutto, con le cattive.
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E' riconosciuto come essere umano soltanto chi appartiene alla ilare confraternita dei vincitori della globalizzazione. Come se fosse la cosa più ovvia del mondo, tutte le risorse del pianeta sono usurpate dalla macchina autoreferenziale del capitalismo. Se poi non sono più mobilitabili con profitto, devono rimanere inutilizzate, anche se vicino a queste risorse intere popolazioni sono ridotte alla fame.
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Eppure, il "Mondo nuovo" dell'economia totalitaria di mercato prevede per i più, anche a prezzo del sacrificio di sè, soltanto un posto come uomini-ombra in un'economia-ombra. Come lavoratori a buon mercato e schiavi democratici della "società dei servizi", devono offrire i loro umili servizi ai vincitori della globalizzazione. I nuovi "lavoratori poveri" possono pulire le scarpe ai businessmen rimasti sulla piazza, vendere loro hamburger contaminati o fare la guardia ai loro centri commerciali. E chi ha appeso il cervello nell'armadio può nel frattempo sognare l'ascesa a imprenditore miliardario.
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I giornali economici, del resto, non fanno più mistero di come immaginano il futuro ideale del lavoro: i bambini che puliscono i vetri delle auto agli incroci ultrainquinati delle strade sono un luminoso modello di "iniziativa imprenditoriale" verso il quale, data l'odierna mancanza di "prestatori di servizi", i disoccupati sono pregati di orientarsi.

Tratto da Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, 2003

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