mercoledì 15 ottobre 2008

Farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione del desiderio

Quale dovrebbe essere la preoccupazione essenziale dell'insegnamento? Aiutare il fanciullo nel suo approccio alla vita per fargli imparare a sapere ciò che vuole e volere ciò che sa; cioè a soddisfare i suoi desideri, non nella soddisfazione animale ma secondo gli affinamenti della coscienza umana.
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Si è prodotto l'opposto. L'apprendimento si è fondato sulla repressione dei desideri. Si è rivestito il fanciullo di abiti angelici sotto i quali non ha mai smesso di fare la bestia, una bestia snaturata per di più.

Una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività

Gli antichi edifici scolastici ricordano i penitenziari. Le finestre poste in alto non permettevano allo sguardo dell'allievo che un'occhiata verso il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di tortura, subiva nell'imbarazzo ordinario il suo destino terrestre.
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I metodi educativi hanno rinunciato alle punizioni corporali all'epoca in cui lo schiaffo e il calcio nel culo hanno smesso di costituire l'essenziale di un'educazione familiare che, a detta dei torturatori, aveva sempre dato prova di sé.
Eccome!
Questo non significa tuttavia che il corpo sfugga ormai alle vessazioni, alla mortificazione, al disprezzo. I sensi non sono forse posti sotto alta sorveglianza durante le ore di studio e nello spazio che è loro riservato? L'occhio ha il dovere di incollarsi ai gesti del maestro. La bocca non si aprirà che all'invito del mentore, e guai a ciò che oserà profferire! Risposte sbagliate, proposizioni scandalose suscitano la bastonata, il rabbuffo, la presa in giro, l'umiliazione; mentre la parola pertinente o servile si attira la lode che il bilancio promozionale di fine anno si incaricherà di contabilizzare. La mano, infine, si leverà con educazione per sollecitare l'attenzione del pedante, con il rischio, fino a poco tempo fa, di farsi battere sulle dita con la regola del retto buon senso.
Ci si accorge, con la distanza del tempo, che studenti e studentesse sono stati trattati secondo i procedimenti dello scienziato staliniano Pavlov che, tra i cani del suo laboratorio, ricompensava la buona risposta con uno zuccherino e puniva l'errore con un choc elettrico. Non fu forse necessario che il disprezzo fosse la norma di un'epoca perché dei pedagoghi preconizzassero un metodo educativo che nessun essere umano degno di questo nome infliggerebbe oggi a un cane? Ed è poi così sicuro che la scuola non resti, nella vigliaccheria di un consenso generale, un luogo di ammaestramento e di condizionamento, al quale la cultura serve da pretesto e l'economia da realtà?

Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996

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